“ Tante Sicilie, perché? Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso di identità, né so se sia un bene o sia un male. Certo per chi c’è nato
dura poco l’allegria di sentirsi seduto sull’ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue il filo del proprio destino” (G. Bufalino)
Le grotte dell’Addaura conservano graffiti che testimoniano la presenza di insediamenti preistorici; arrivarono poi i Sicani, i Cretesi e gli Elimi, fino al 734 a.C., quando i Fenici decisero di stabilirsi “al centro del mondo” e la città si chiamò Mabbonath (città abitata).
Fu la volta dei Cartaginesi che amarono a tal punto la città da chiamarla Zyz (fiore).
I Greci non potevano certo ignorare l’importanza di questo centro che con loro divenne Panormos (tutto porto), che i Romani nel 254 a.C. declinarono in Panormus.
Prima Vandali, Ostrogoti e Bizantini, gli Arabi poi, ne fecero il loro gioiello e la chiamarono Balarm e ancora i Normanni e gli Svevi di Federico II.
Contesa tra Angioini e Aragonesi, Palermo passò nelle mani degli Spagnoli fino al 1713, poi i Savoia e i Borboni.
Sbarca Garibaldi a Palermo nel 1860; infine i palermitani si resero italiani.
Ignazio Buttitta scrive: “Cu camina calatu ci torci a schiena, s’è un populu torci a storia”. E’ un popolo che non ha posseduto fino in fondo la sua terra, un cane che ha cambiato mille padroni. Ma i palermitani, i siciliani, sono fieri e forti nella loro vanità: “Crede davvero, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti musulmani, quanti cavalieri di Re Ruggero, quanto scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti leghisti del cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chissà più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in un parola?” (Il Gattopardo, G. Tomasi di Lampedusa).
Non esiste una Palermo, non esiste un palermitano. Non credo si indispensabile essere siciliani per capire la Sicilia ma bisogna sempre tenere in considerazione la nostra storia: per Camilleri “il bello della Sicilia è la scoperta quotidiana di siciliani sempre diversi. Chiudere il siciliano in un ruolo di tanghero scostante è un errore grosso. Certo che esiste un siciliano di questo tipo ma c’è anche il sangue di tredici dominazioni. Credo che oggi, noi siciliani, abbiamo l’intelligenza e la ricchezza dei bastardi, la loro vivacità e arguzia”.
Quando un turista attraversa i vicoli di Palermo si stupisce di quanto la gente sia ben disposta al dialogo.
E’ una specie di abitudine allo “straniero”, di fiducia verso lo “sconosciuto”; sarà il sole che arroventa i strati o u sciauru d’arance e gelsomini che ‘ntinnirisci i cuori … forse è l’umorismo di cu nn’ha vistu assai e il peggio non lo immagina peggio di com’è stato e di com’è; e forse è proprio vero che “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. (Il Gattopardo G. Tomasi di Lampedusa).